EDVARD MUNCH – Genova, Palazzo Ducale

Picture: Edvard Munch Bagnanti, 1904 – 1905 olio su tela, 57,4 x 68,5 cm
Collezione privata © The Munch Museum / The Munch-Ellingsen Group by SIAE
2013

Alla ricerca del tempo futuro (sale 1 e 2)
Il padre gli aveva suggerito di iscriversi allʼIstituto Tecnico. Edvard era un giovane in cerca del suo
futuro. Alle spalle un côté noir di lutti: la madre, quando aveva solo 5 anni, la sorellina Sophie, cui era
particolarmente legato, il fratello e ancora una sorella. Anche la sua infanzia era stata costellata di
malattie. Edvard obbedisce, ma il destino chiama. Decide di diventare pittore; si iscrive alla Reale
Scuola di Disegno. Affitta uno studio con altri giovani colleghi. Si fa plasmare dai suoi mentori, rientrati
dalla più vasta e nuova Europa, dalla Germania, dalla Francia. Egli stesso decide di andare a Parigi e
inizia la sua lunga serie di autoritratti. Le prime opere nascono sotto il segno della scuola. I suoi
paesaggi sono talvolta naturalisti, talvolta di derivazione impressionista. Il suo volto è più che mai
veritiero, con una punta di austerità e una sorta di domanda non posta dal rigido colletto e dallo
sguardo fermo ma indagatore. I tratti sono precisi. Nel tempo diventeranno mobili, segni veloci,
impastati di colore in alcuni casi, di dolenti segni grafici in altri. Eppure anche in questi primi autoritratti
si scorge lʼintenzione di indagare la psiche, di sottoporre la propria immagine a uno scrutinio.
Edvard si apre al mondo: è affascinato dal suo collega e amico Hans Jaeger che gli fa conoscere le
opere di Kierkegaard, iniettando in lui la convinzione che lʼarte deriva necessariamente dalle
esperienze personali. Rientrato da Parigi mette su tela la luce degli impressionisti ma comincia anche
a metterci la sua anima. Disegna lʼagonia della sorellina. Il dramma è ancora trattenuto. Eʼ la
malinconia a prevalere sulla disperazione. Comincia a sgorgare il sangue dal cuore. Comincia a
prendere corpo la sua poetica, come egli stesso annota nei Diari: “AllʼImpressionismo mancava
quellʼespressività di cui avevo bisogno nel mio lavoro. Dovevo tirare fuori le impressioni che agitavano
la mia interiorità”.
Le Incisioni dellʼanima (sala 3)
Vampiri, Madonne di un solo istante, occhi negli occhi, tragici e fissi, malinconie. Rosso e nero, ovvero
la vita e la morte. Sono i soggetti delle opere della maturità di Munch, quando come profetizzava da
giovane, inseguendo il suo futuro, “lʼarte è il sangue del cuore umano”. Il passato e la vita entrano
fossero ancora troppo leggeri, che trova la sua vera espressività, perché vuole incidere la tela, come
incidesse lʼanima. E anche il soggetto si fa più libero, come nel ciclo delle Madonna. Sacro e profano
si intrecciano nel suo lavoro. Una donna nuda, raffigurata fino alla cintola, sʼimpone allo sguardo di chi
lʼosserva. Le braccia sono piegate allʼindietro, spingendo il corpo in avanti. La testa reclinata
allʼindietro, il volto colto nellʼattimo dellʼestasi quando “la donna raggiunge una bellezza
sovrannaturale, effimera cosicché scoprendola lʼuomo si immagina di trovarsi davanti una madonna”.
Questo il soggetto dei quattro dipinti ad olio. Ma nellʼincisione, nella grafica, Munch spalanca e
chiarisce il suo pensiero e si permette libertà che sarebbero state censurate in un dipinto: inserisce
cornici disegnate che si popolano di spermatozoi. In un angolo perfino un embrione che leva gli occhi
impauriti e già dolenti sulla madre-donna. La donna che è anelito, ma vampiro, la donna nel cui seno
lʼuomo cerca vanamente conforto, perché come annota nei suoi Diari: “I suoi capelli si erano avvolti
intorno a me come serpenti, i loro lacci più sottili si erano avvolti intorno al mio cuore”. E rimangono un
uomo e una donna, con occhi già di teschio, che però si attraggono, che credono che lʼamore abbia un
potere salvifico. Ma lʼamore porta gelosia, porta altri occhi sbarrati e cupi, se si ha fortuna porta la
malinconia della solitudine in una natura che è partecipe, ma anchʼessa desolata.
La natura che non urla (sala 4)
Munch conosceva bene il Simbolismo e in alcuni suoi lavori se ne è servito. Ma con un tratto e uno
stile personalissimo che ne hanno fatto per certi versi lʼapripista dellʼEspressionismo. Memore della
lezione di Gauguin, reinventa la natura che per lui “è lʼopposto dellʼarte; è il mezzo non il fine”. Ogni
alterazione del vero diventa legittima. I colori sono usati in modo antinaturalistico, le linee si deformano
in base al significato di cui si devono fare portatrici. Come ebbe a scrivere: “Molti ritengono che un
dipinto sia finito quando il maggior numero possibile di dettagli è stato completato. Una singola linea
può essere unʼopera dʼarte. Un quadro deve essere realizzato con un senso di scopo e di emozione.
Eʼ lʼaspetto umano, la vista che bisogna cercare di comunicare. Non la natura morta”. La vita che può
essere un cavallo al galoppo, un gruppo di operai al lavoro, dei giovani nudi su scogli assolati, la
piazza di un mercato, una fattoria di campagna, una donna con un bambino in braccio contornata dagli
altri figli che giocano. Prima che arrivasse lʼurlo, prima che il rosso del tramonto pervadesse e facesse
vibrare lʼanima desolata di uomini e dellʼuniverso in cui sono immersi, entrambi privi di redenzione e di
speranza, schiacciati più che da grida di terrore, dallʼafasia dellʼangoscia, cʼè stato un tempo in cui
illudersi dove i colori sono caldi, i corpi ancora pudichi a nascondere un giovane sesso. Prima che
Munch si innamorasse della poetica di Strindberg, dei suoi drammi in cui giovani donne, compiono
girotondi amorosi e la gelosia sopraffa lʼamore, prima che le onde sinfoniche di Wagner si
traducessero in lui in onde pittoriche urlanti, la Natura, le ragazze possono ancora chiacchierare su un
ponte del loro futuro e le case possono sembrare un rifugio dal male del mondo. Ma le case sono
rosse e il ponte ha alle spalle la città. La felicità è un attimo, un pomeriggio dʼestate sugli scogli,
quando si è giovani e inconsapevoli.
I Linde, una parentesi “luminosa” (sala 5)
Nel 1904 Munch trascorre gran parte dellʼinverno a Lubecca presso la famiglia del dottor Max Linde. I
due si erano conosciuti due anni prima e il medico oculista gli aveva commissionato la “Cartella
Linde”, un portfolio di 14 acqueforti e 2 litografie sulla sua famiglia. Munch era reduce dalla rottura con
la fidanzata Tulla Larsen. Il loro rapporto si era concluso perché la donna desiderava essere sposata e
avere una famiglia. Ma Munch, che aveva una sorella ricoverata in un centro per malati mentali,
temeva di trasmettere ai figli le medesime tare della sorella. Lʼepilogo della storia con Tulla è tragico:
nel corso di un litigio, un colpo di pistola, probabilmente sparato dallo stesso Munch, gli causa la
parziale perdita di un dito. Dai Linde Munch trova un ambiente familiare che non gli è stato dato di
conoscere. Esegue il ritratto dei genitori e dei loro quattro figli. Si attarda in giardino a schizzare la
dimora dei Linde e le statue che la circondano. Ritrae i figli di Linde singolarmente e tutti e quattro
insieme. Prova ad essere un uomo e un pittore normale. Prova a dar conto dellʼintimità domestica di
una famiglia felice. Non sappiamo se Munch abbia mai letto “Giro di vite” di Henry James che era stato
pubblicato nel 1898. Eppure nellʼosservare quei vestitini alla marinaretta, usati nella più tarda versione
musicale di Britten, vengono alla mente i piccoli fantasmi dellʼopera di James. Quel giardino che
protegge la famiglia Linde, quella grande casa, quella madre amorevole, richiamano alla memoria le
fugaci apparizioni di unʼaltra famiglia di morti, quella appunto di James. La parentesi del soggiorno in
casa Linde si illumina di una luce spettrale. E non sembra dunque un caso che Munch lʼanno
successivo abbia lavorato alle scenografie di “Spettri” di Ibsen.
I volti che vibrano (sale 5-6)
“Abbiamo sofferto la morte durante la nascita. Siamo lasciati con la più strana delle esperienze: la vera
nascita, che è chiamata morte. Per cosa siamo nati?”. Munch si pone questa domanda nel 1932. Ha
69 anni e da 16 vive nellʼeremitaggio della sua tenuta di Ekely, circondata da un vasto terreno alle
porte di Oslo. Nel 1930 una malattia agli occhi lo ha condotto alla quasi cecità. In questo ultimo
periodo della sua vita lavora su molti autoritratti, come se cercasse di scoprire in primo luogo il senso
della sua esistenza. In realtà in ogni ritratto uscito dalle mani di Munch vi è questa ricerca spasmodica,
questa domanda prima e ultima insieme. Lʼartista sa che con la sua fine la sua opera tuttavia
continuerà a esistere. Nei ritratti Munch toglie vita e la dona. La toglie, perché nonostante le pose
pacate di certi suoi modelli, la cromia violenta e il disagio esistenziale rammentano come tutto fluttua
in un presente già in via di dissolvimento. La dà, perché comunque quellʼesistenza è fermata sulla tela
per i posteri.
Molti anni addietro aveva scoperto la fotografia. Usava la macchina come usa la matita o il
carboncino. I suoi scatti erano sovraesposti o fuori fuoco; i suoi disegni sdoppiano i contorni, si fanno
ambigui, in alcuni casi fatali. Certo i volti ritratti hanno un nome e un cognome, ma come scrive: “La
seconda condizione per un ritratto è che esso non somigli al modello: la prima condizione è che lʼarte
è arte”. Munch osserva con un doppio sguardo, esterno ed interno, in una sorta di psicanalisi visiva,
memore della lezione di Freud: “La proiezione allʼesterno di percezioni interiori è un meccanismo che
ha una parte rilevantissima nel nostro mondo esterno”. E i suoi autoritratti sembrano gridare al mondo
le parole scritte allʼamata Tulla: “Mi è stato attribuito un unico ruolo da interpretare su questa terra: un
ruolo caratterizzato da una vita piena di malattie e di avvenimenti dolorosi così come la mia
professione di artista. Unʼesistenza nella quale non esiste una sola cosa che somigli alla felicità e che
addirittura non osa aspirare alla felicità”.
Lʼuniverso femminile (sale 7- 8)
La madre era castana. Le sorelle bionde. Così come le sue ragazze sul ponte. Nei ritratti familiari le
donne hanno mani raccolte sul ventre, hanno pose mansuete. Ma questo è un rapporto che Munch
non ha conosciuto, perché la vita lo ha strappato alle braccia materne a soli cinque anni. Poi ci sono
state le donne della vita, le amanti e la fidanzata. Rosse di capelli, con capelli che paiono serpenti, le
mani dietro la schiena, il busto in avanti. Cʼè stata la protagonista di Gelosia, la norvegese Danguy,
che Munch contese non tanto al marito legittimo, il disattento poeta polacco Przybyszewski, in primo
piano del quadro, quanto allʼamico drammaturgo August Strindberg che di lei scrisse: “Eʼ una
miserabile figlia di Satana” come se stesse osservando i Vampiri di Edvard. Anche Tulla Larsen, la
fidanzata, aveva i capelli rossi e voleva essere sposata. Lasciata Tulla ama e dipinge unʼaltra rossa,
Rosa Meissener e come nei girotondi di Strindberg arriva Eva Mudocci, violinista inglese che posa per
le sue Madonne.
Nel suo volontario esilio di Ekely Munch non riceve nessuno, tranne numerose modelle che diventano
il soggetto ricorrente, insieme agli autoritratti, dellʼultimo periodo. Una modella in casa poi lʼaveva
sempre, la governante o meglio le governanti che negli anni si sono succedute, alcune andate via in
sposa, una perfino al suo amministratore, altre stufe di dormire per terra davanti alla cucina. Come la
donna ritratta in piedi, il capo chino, i capelli che scendono verso il ventre e che si chiamava Birgit
Prestöe. Mentre la ritraeva nuda, Munch la invita a bere un caffè come racconta Birgit anni dopo.
Edvard è un uomo ormai anziano che sta dipingendo ancora una chioma rossa come quelle del
passato: “Una chioma come una pioggia di sangue versato a torrenti sullʼinsensato che cerca la divina
sventura di essere amato”. Edvard però non cerca più quella sventura. Attende la morte,
concedendosi perfino una punta di ironia quando dice alla modella: “Mio zio si è sposato a 80 anni.
Avrebbe fatto meglio a prendersi un caffè”.

Dal 6 novembre 2013

al 27 aprile 2014

Lunedì h.14.0 -­‐19.00

Da Martedì a Domenica h. 9.00

-­‐19.00 www.mostramunch.it