PINO DANIELE: i funerali mercoledì 7 gennaio 2015 a Roma – Zona Via Ardeatina

PINO DANIELE_Acustico1x1_foto di Roberto Panucci_b

PINO DANIELE: I Funerali
Mercoledì 7 gennaio a Roma

I funerali di PINO
DANIELE
, tragicamente scomparso nella
tarda serata di ieri (domenica 4 gennaio), saranno celebrati mercoledì 7
gennaio a Roma, alle ore 12.00 presso il Santuario della Madonna del Divino
Amore a Castel di Leva
(via del Santuario 10, Roma – nei pressi di via
Ardeatina). I funerali saranno in forma
pubblica.

La famiglia dell’artista
ringrazia per il calore ricevuto in queste ore di
dolore.


PINO
DANIELE

Biografia

Una voce, una chitarra e un mix di
blues, rock, soul, funky, suoni arabi, radici napoletane, jazz, salsa, samba e taramblù, quel posto magico dove la tarantella
incontra Robert Johnson, ora anche di melòrock.

Pino Daniele? Il nero a metà, l’americano della nuova
Napoli che sognava di veder passare la nottata, il mascalzone latino, il Lazzaro
felice, l’uomo in blues, il musicante on the road, il neomadrigalista,
cantautore che negli anni in cui dominava il messaggio non mise mai in secondo
piano la musica, pur avendo cose da dire, e che cose.

Giuseppe Daniele, napoletano del
centro storico, classe 1955. Oggi che la sua carriera ricomincia da
un’indipendenza discografica-artistica a cui ha da sempre aspirato, appare
ancor più chiara, ricca, complessa e diversa da qualsiasi routine la parabola
che l’ha portato dai vicoli dove non entra mai il sole alle hit parade,
l’Olympia di Parigi, Umbria Jazz,
l’Apollo di New York, il Festival di
Varadero
a Cuba, gli stadi di tutta Italia, l’Earth Day al Circo Massimo, il Crossroad
Guitar Festival
di Chicago.

A cavallo tra gli anni Settanta e
Ottanta, Pino inventa una nuova lingua, anzi un lingo, gioca con le melodie
assimilate in piazza Santa Maria La Nova, i racconti di munacielli e belle
’mbriane delle zie, il rock e il jazz come sogno americano, il vento di
rivoluzione che scuote Napoli negli anni dell’impegno che naufragherà nel
disimpegno poi detto riflusso.

Come Carosone riflette
sull’America che è in lui e nella sua musica, utilizzando la rabbia al posto
dell’ironia, un piglio da capopolo newpolitano al posto dello sfottò, che pure
permea il suo canzoniere da Masaniello ma non troppo. Il suo leggendario
supergruppo mostra all’Italia che nella canzone c’è un Sud competitivo, che sa
parlare alla nazione intera anche usando il dialetto, segna l’apice del
neapolitan power, ma anche la fine: quando il sogno collettivo dell’orgoglio
vesuviano lascia il passo alle carriere soliste, Daniele prende il volo, ma ha
già scritto pagine destinate a rimanere, fondendo la melodia partenopea con il
rock-blues, la canzone di protesta con la saudade del Vesuvio.

Il brano che dà il titolo al suo
disco d’esordio, “Terra mia”, del 1977, sta a Partenope come “This land is my
land” sta all’America di Woody Guthrie con un’aggiunta di sofferenza e
consapevolezza storica che non è mai autocompatimento, ma il brano che apre il
disco, “Napule è” è qualcosa di più, il canto di una generazione, l’ultima
speranza prima della disillusione, poesia e rabbia, il dolore e il sogno
impossibile di una città/nazione salvata dai ragazzini, anzi dai “criature”,
dal loro canto ingenuo, pulito. E, sia detto senza dubbio alcuno, una melodia
da applausi.

Nel 1979 “Pino Daniele” mette
insieme capolavori come “Je sto vicino a te”, “Chi tene ‘o mare”, “Je so’
pazzo”, “Chillo è nu buono guaglione”, “Ue man!”, “Il mare”, “Putesse essere
allero”, E cerca ‘e me capì” con un’ispirazione che lascia allibiti per
lucidità e varietà: mente la canzone d’autore italiana si piega al messaggio,
lui la libera da ogni stilema, rischia le parolacce che lo fanno trasmettere
alla radio, parla di diversità e di ecologia prima che i temi diventino di
moda. Il sound è travolgente, attorno a lui i colleghi cantautori puntano solo
sulle parole, qui c’è ritmo da vendere, grondano groove imparati nei locali
degli americani della Nato a Napoli.

“Nero a metà”, omaggio a Mario
Musella e prima autodefinizione in musica, è il disco del grande successo,
l’incrocio definitivo tra melodie veraci e richiami rock applicati a raccontare
sentimenti come l’”Alleria” o l’”Appocundria”, prima di dichiarare la propria
passione: “A me me piace ‘o blues”. Nell’Italia degli slogan politici
accompagnati da chitarre scordate, il treno del supergruppo newpolitano fa faville,
quel blues latino apre il mitico concerto di Bob Marley a San Siro. L’apoteosi
di quella prima stagione, l’apice e la fine di quell’orgoglio napoletano si
registra il 19 settembre 1981: piazza del Plebiscito, allora un parcheggio e
non certo il salotto buono della città, si riempie di duecentomila persone,
nessuno se le aspettava, forse è il primo megaconcerto italiano. Tullio De
Piscopo, Joe Amoruso, Rino Zurzolo, Tony Esposito e uno straordinario James
Senese accendono una notte tenerissima, indimenticabile.

Ma Pino, che pure cattura quella
stagione in un altro lp epocale come “Vai mò” (1981) e in brani come “Yes I
know my way”, “Viento ‘e terra”, “Sulo pe’ parlà” e “Have you seen my shoes”, è
talento irrequieto, ha bisogno di guardare al mondo, Napoli non gli starà mai stretta,
ma il suo futuro ora è una raccolta impressionante di collaborazioni
internazionali, di aperture ad altri suoni, altre storie.

“Bella ‘mbriana”, del 1982, parla
di tradizioni dimenticate, anticipa la stagione della world music che sarà,
eppure coinvolge jazzisti del calibro di Wayne Shorter ed Alphonso Johnson,
continuando a mischiare napoletano, italiano ed inglese: “Tutta ‘n’ata storia”
e “I got the blues” si muovono tra monacielli ed antiche leggende della città
nata con il canto delle sirene. Due anni dopo, “Musicante” incontra le
percussioni brasiliane di Nanà Vasconcelos, la tromba terapeutica di Don Cherry
e i suoni d’Africa, senza dimenticare il genius loci di “Lazzari felici” o la
capacità di parlare di argomenti-tabù come quelli del contrabbando in mano alla
camorra in “Stella nera”.

Dal vivo, poi, non ce n’è per
nessuno, come sintetizza “Sciò live” (’84) che si spara i sassofoni solisti di
Gato Barbieri e Bob Berg accanto a una sezione di fiati formata da Larry Nocella,
Juan Pablo Torres e Adalberto Lara. “Ferry boat (’95) guarda ancora ai Sud del
mondo, balla la “Dance of baia”, fa salire a bordo nuovi sessionmen stellari
come Steve Gadd e Richard Tee. Il

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