Teatro della Pergola – Sebastiano Lo Monaco – Non è vero ma ci credo di Peppino De Filippo

Dal 18 al 23 febbraio 2014

 

NON E’ VERO MA CI CREDO-SEBASTIANO LO MONACO-FOTO DI TOMMASO LE PERA

Sicilia Teatro

Sebastiano Lo Monaco – Lelia Mangano De
Filippo

NON E’ VERO MA CI CREDO

Di Peppino De
Filippo

con Alfonso Liguori

scene e costumi Alida
Cappellini e Giovanni Licheri

luci Luigi Ascione

regia Michele Mirabella

personaggi e
interpreti

Gervasio Savastano –
Sebastiano Lo Monaco

Teresa, sua moglie –
Lelia Mangano De Filippo

Rosina, sua figlia –
Maria Laura Caselli

Alberto Sammaria –
Antonio De Rosa

Avv. Donati –
Alfonso Liguori

Ragioniere Spirito –
Vincenzo Borrino

Mazzarella, la
dattilografa – Margherita Coppola

Belisario Malvurio –
Carmine Borrino

Tina, la cameriera –
Luana Pantaleo

Musciello –
Salvatore Felaco

Dottor Bottola –
Salvatore Felaco

Invitata – Cristina
Darold

Invitato – Matteo
Bianco

Giovedì 20 febbraio, ore 18.00

Sebastiano Lo Monaco, Lelia Mangano De Filippo
e gli attori della compagnia incontrano il pubblico. Ingresso libero

Torna alla Pergola Sebastiano Lo Monaco con Lelia
Mangano De Filippo nella commedia Non è vero ma ci credo, diretta da
Michele Mirabella.

L’ultima
interpretazione della sua carriera e l’ultima apparizione alla Pergola di
Peppino De Filippo nel 1978 fu proprio con la sua commedia Non è vero ma ci
credo
. Accanto a lui e nello stesso ruolo di Teresa, nel cast era già Lelia
Mangano De Filippo, sua moglie da pochi mesi, così come Antonio De Rosa ieri e
oggi interprete di Alberto Sammaria.

Dalla scorsa
stagione è Sebastiano Lo Monaco a vestire i panni del protagonista Gervasio Savastano  nella sua nuova produzione diretta da Michele
Mirabella.

Non è vero ma ci credo, andata in scena nel 1942, è considerata il
capolavoro comico di tutta la produzione teatrale di Peppino De Filippo.
Ottenne un così vasto successo che dieci anni più tardi si decise di farne
anche un film diretto da Sergio Grieco.

Ritrovare la
tradizione per garantirle l’agilità della modernità continua ad essere la cifra
stilistica delle scelte artistiche di Sebastiano Lo Monaco e dell’incontro
felice con la regia di Michele Mirabella. Non è vero ma ci credo è
ambientata nel pieno del boom della fine degli anni Cinquanta, Alida Cappellini
e Giovanni Licheri, assecondando la passione per il vintage del regista, hanno
realizzato scene e costumi su modelli originali dell’epoca. “Gervasio Savastano
è frutto della tipica ironia di Peppino De Filippo – racconta Sebastiano Lo
Monaco –  in questa commedia,  troviamo tutti i suoi temi ricorrenti: il
malocchio, gli affetti il matrimonio e la famiglia”

La superstizione è la
lotta disperata e perdente di chi ingaggia battaglie per combattere destino e
sfortuna, di chi non ha altri mezzi a propria disposizione per allontanare i
colpi sinistri della sorte, che quelli di ricorrere a sotterfugi e scongiuri.
Ma si sa, la superstizione non ha niente a che vedere con i fatti della vita, è
solo un atteggiamento mentale che l’uomo talora utilizza di fronte a sue talune
incapacità, e che altera la visione della realtà stessa. Proprio come succede,
fortunatamente per lui, a Gervasio Savastano.

I suoi affari non vanno bene e lui sospetta
che la colpa sia di un suo impiegato, Belisario Malvurio, cui attribuisce un
influsso malefico. In famiglia ci sono problemi: sua figlia Rosina si è
innamorata di un giovane, che il padre ritiene non all’altezza del rango della
ragazza. All’improvviso, però, la fortuna sembra girare. In azienda arriva un
giovane, Alberto Sammaria, e gli affari cominciano ad andar bene. Anche il
giovane di cui era innamorata la figlia è un lontano ricordo. L’inconveniente è
che il novizio aziendale ha una magnifica gobba beneaugurante. Tutto sembra
filare liscio, ma il diavolo ci mette lo zampino: il gobbo confessa di essersi
innamorato di Rosina, e dà le dimissioni. Il commendatore è disperato, ma
convincerà sua figlia a sposare Sammaria. Non può mancare il sorprendente lieto
finale.

“La comicità e il buonumore, come si sa –
sottolinea Mirabella – hanno spesso un loro contraltare un po’ crudele, un po’
sadico. Ma qui nella commedia bonaria di Peppino, tutto è risolto con ironiche
strizzate d’occhio, con benevola condiscendenza, con l’innocenza del ridere.”

Note
di regia

Fateci
caso. In questa commedia due personaggi indossano un nome che è tutto un
programma. Un programma di rinvii simbolici, di allusioni onomastiche: Malvurio
Belisario e Sammaria Alberto. Messi così, come nei registri scolastici, col
cognome prima, i due ostentano una farsesca denominazione che invia al male,
nel caso di Belisario, alla iattura, alla cupa profezia che si avvinghia a
quella lettera u che avvita il finale “rio”, cattivo. Appunto. E, c’è, poi,
quel soave Sammaria chiesastico che sembra attivare un Rosario di benedizioni,
una novena di fortune irrorate da oscuri voleri superiori.

Il
commendatore Gervasio Savastano è tormentato dalla superstizione; i suoi affari
non vanno bene, arrancano faticosamente e lui sospetta che la colpa sia di un
suo impiegato, Belisario Malvurio, cui attribuisce un influsso malefico,
sarebbe, insomma un poco iettatore. Anche in famiglia ci sono problemi: sua
figlia Rosina si è innamorata di un giovane impiegato, che il commendatore
ritiene non all’altezza del rango borghese, peraltro, della ragazza.
All’improvviso, però, la fortuna sembra ricordarsi del commendator Savastano.
Nell’azienda capita un giovane, Alberto Sammaria e, con il suo arrivo, gli
affari cominciano di colpo ad andar bene. Anche la figlia del commendatore
sembra aver ritrovato la serenità e il giovane di cui era perdutamente
innamorata è diventato un lontano ricordo.

Il
fatto è che il novizio aziendale ha la gobba, una magnifica gobba
beneaugurante, una gibbosità portafortuna, seconda la antichissima
superstizione diffusa in tutta l’aerea mediterranea. Crudele per il titolare
che la sopporta, costretto a subire il soverchio di toccamenti casuali, di
carezze furtive, di occhiate sorridenti e ammiccanti alla sua deformità. Chi
ricorda i lamenti di Rigoletto buffone di corte, che sopporta l’onere della sua
tabe sa di che cosa parlerebbe Sammaria se fosse libero di farlo. Ma non lo è e
deve compiacersi della sordida felicità del datore di lavoro. Gli affari,
infatti, vanno a gonfie vele.

Tutto
sembra filare liscio, ma il diavolo ci mette lo zampino e il diavolo di queste
cose si occupa da tempi remotissimi: Alberto Sammaria confessa al commendatore
di essersi innamorato di Rosina, e per questo motivo si sente costretto a dare
le dimissioni. Il commendatore disperato, ma troverà una soluzione: convincerà
sua figlia a sposare Sammaria. Dopo qualche traccheggiamento, la ragazza si
arrende; ma un incubo turba i sogni del commendatore: che i suoi nipotini
ereditino il difetto fisico di Sammaria. Il matrimonio si celebra, ma il
commendatore non riesce a liberarsi dei suoi timori e avverte i giovani che è
sua intenzione di invalidare le nozze.

Il
lieto fine sorprendente non può mancare e ne deve pagare il comico e grottesco
fio il Savastano che scoprirà di essere stato raggirato: Sammaria non è altri
che proprio il giovane di cui Rosina era sempre stata innamorata e la gobba era
solo un artificio per consentirgli di entrare nelle grazie del futuro suocero
gabbato dalla gobba come contrappasso giudizioso per punirlo della sua
superstizione. Ma l’autore ammicca, il grande Peppino occhieggia e sorride
amaramente, ma sorride: tira i fili del pupo commendatore che cede all’amore
dei due giovani, anche perché, pure se non è gobbo, Sammaria porta bene!

Di
nostro ci mettiamo che Malvurio non portava male. Anche questo pupo vuole
rispetto. Soprattutto in palcoscenico.

Quanto
a noi, muoviamo i pupi con amore perché vivano il loro tempo sulla scena con il
compito appassionante di fare un mestiere bellissimo: il teatro. In questo
spettacolo si tende a recuperarne i segreti intramontabili, dalla Commedia
dell’arte, all’Arte della Commedia. E poniamo la nostra scena in Italia,
ovviamente, in quegli ultimi anni cinquanta che furono la vigilia della
prosperità del Paese, in quegli indimenticabili anni in cui essere scanzonati
non voleva per forza dire essere scostumati. La sola nostalgia potrà scaturire
da questo, ma fermo resta l’intento di ridere dell’ignoranza e delle
superstizioni sopportando l’urgenza della scaramanzia e ricordando il filosofo
che, pazientemente sornione avverte: “Non è vero, ma ci credo”.

Michele Mirabella

Info: www.teatrodellapergola.com

Orario spettacoli: dal martedì al sabato: ore
20.45, domenica: ore 15.45. Lunedì riposo.

Prezzi biglietti interi: Platea: € 30, Posto
Palco: € 22, Galleria: € 15