PAIS del Cinema” al Museo di Trastevere – dal 23 gennaio all’#8 marzo2015

PAIS del Cinema
Gli anni d’oro del cinema italiano nel racconto per immagini di un grande fotografo

Museo di Roma in Trastevere
23 gennaio – 8 marzo 2015
inaugurazione 22 gennaio ore 18.00

comunicato stampa

Un  vero Paese del cinema. Non si teme di sbagliare definendo così l’Italia del decennio che inizia nel 1960, quando Federico Fellini vince la Palma d’oro al festival di Cannes con La dolce vita e Michelangelo Antonioni il Premio della Giuria con L’avventura. La produzione cinematografica di quegli anni costituisce un insieme complesso e di grande interesse, che non solo riflette nelle sue immagini la società del tempo, ma talora contribuisce ad anticipare i cambiamenti, modificando mentalità, morale e memoria collettiva. 

Giocando nel titolo col nome del protagonista, la mostra Pais del Cinema – promossa da Roma Capitale, Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, a cura di Guido Gambetta e Salvatore Mirabella con i servizi museali di Zètema Progetto Cultura – documenta molto bene questa fortunata epoca del cinema con le immagini del grande fotoreporter e fotografo Rodrigo Pais (1930 – 2007).

In esposizione i film fotografati, molti tra i quali hanno lasciato un’indelebile traccia nella storia del nostro cinema, come Il sorpasso di Dino Risi, La ragazza di Bube di Luigi Comencini, La noia di Damiano Damiani, L’eclisse di Michelangelo Antonioni, Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini. Film che mostrano una trama diversa da quella proiettata nelle sale cinematografiche, fatta di ciak, momenti di riposo, truccatori al lavoro, parenti dei protagonisti, spettatori curiosi. Sono momenti che il regista ha eliminato o ridotto a brevi scene e che il fotografo invece ha replicato scattando decine di fotografie.

Lo spunto offerto dalle straordinarie fotografie di Rodrigo Pais ha reso possibile delineare un percorso nel cinema italiano in un periodo di crescita della società e dell’industria cinematografica, che offre allo stesso tempo molti altri motivi di riflessione. Insieme ai film, in mostra anche i fatti di cronaca che li hanno ispirati come Scusi lei è favorevole o contrario?, Il giovedì e Menage all’italiana, sull’argomento divorzio, Il sicario e A… come assassino sul famoso processo penale Ghiani – Fenaroli che appassionò l’opinione pubblica dell’epoca, Il boom sul grande tema del miracolo economico a cavallo tra anni ’50 e ’60.

Dimostrano ancor meglio la completezza artistica del fotografo Pais, altre sezioni dedicate a Cinema e Letteratura, con testimonianze sul “Premio Strega” e sui problemi tra film e censura, e ai ritratti di attrici, attori e registi. Completa la mostra una scelta di locandine, fotobuste e manifesti originali dei film presentati. Vi è inoltre una sezione interamente dedicata a Virna Lisi.

Rodrigo Pais nacque a Roma il 28 settembre 1930. Iniziò fin da giovanissimo a fare i lavori più disparati: sciuscià, cappellaio, garzone di barbiere. Nel 1946 iniziò a lavorare come stampatore nel laboratorio fotografico Binazzi e Lombardini. Dopo anni di gavetta, la passione per la fotografia e la politica lo portarono nel 1950 a diventare fotoreporter per il settimanale Vie Nuove. Dal 1954 iniziò la collaborazione come fotoreporter di primo piano con L’Unità (per cui lavorò dal giugno 1977 al febbraio 1983) e Paese Sera. Collaborò anche con altri quotidiani fra i quali il Corriere della Sera, il Corriere d’informazione e La Stampa. Con Giorgio Sartarelli fondò l’Agenzia Pais e Sartarelli che fino al 1972, anno dello scioglimento, è stata una delle più note e apprezzate sia in Italia che all’estero. La sua attività professionale di fotoreporter durò più di cinquant’anni e si  concluse nel 1998. Morì a Roma il 9 marzo 2007. Fotografo fra i migliori del dopoguerra, ci ha lasciato un archivio di quasi 400.000 fotografie fra stampe e negativi in bianco e nero e a colori che lui stesso ha catalogato secondo il doppio criterio cronologico e per argomenti.

SCHEDA INFO

Mostra    PAIS del Cinema. Gli anni d’oro del cinema italiano nel racconto per immagini di un grande fotografo
      
A cura di    Guido Gambetta e Salvatore Mirabella
      
Quando    23 gennaio – 8 marzo 2015
      
Inaugurazione    22 gennaio ore 18.00
      
Dove    Museo di Roma in Trastevere, Piazza S. Egidio 1B
      
Orari    Da martedì a domenica ore 10.00 – 20.00; la biglietteria chiude alle ore 19.00; chiuso lunedì
      
Biglietti    Non residenti: intero € 8,50; ridotto € 7,50. Residenti: intero € 7,50; ridotto € 6,50. Gratuito per le categorie previste dalla tariffazione vigente
      
Enti proponenti    Roma Capitale Assessorato alla Cultura, Creatività, Promozione Artistica e Turismo – Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali      
          
Servizi museali    Zètema Progetto Cultura      
Con il contributo di    Banche Tesoriere di Roma Capitale: BNL – Gruppo BNP Paribas, UniCredit, Banca Monte dei Paschi di Siena; MasterCard Priceless Rome; Vodafone      
          
Info    Tel. 060608 (tutti i giorni ore 9–21)
www.museodiromaintrastevere.it; www.museiincomune.it; www.zetema.it;  www.060608.it #paisdelcinema   

Un alieno sul set.

Lo sguardo di Rodrigo Pais sul cinema italiano negli anni del miracolo
economico.

di Giacomo Manzoli

La cosa più difficile è
scegliere da dove partire. Perché nella Roma del boom economico certamente non
mancavano le occasioni per documentare una delle pochissime rivoluzioni
interamente riuscite che hanno riguardato il nostro Paese. La rivoluzione del
benessere, quella che ha portato una nazione agricola, composta a maggioranza
di braccianti analfabeti alla mercé dei latifondisti, a diventare la settima
potenza industriale mondiale. Una rivoluzione che si è impressa non solo nelle
abitudini di consumo e negli stili di vita, bensì anche nel modo di pensare,
nel sistema di valori, priorità, aspettative e nel modo di socializzare, di
rapportarsi a se stessi e agli altri. Dunque una rivoluzione che ha colpito,
come apocalitticamente sosterrà Pasolini, in profondità. Non solo nella moda,
nelle acconciature delle signore, nella cosmesi, nelle automobili, negli
arredamenti e così via, ma anche e soprattutto nei corpi, nel modo di sorridere
e di atteggiarsi, nella mimica, nella prossemica, nella postura e in tutte
quelle mille forme, apparentemente spontanee ma in realtà socialmente
costruite, che stabiliscono il nostro modo di essere.

E Pasolini, nelle foto di
Rodrigo Pais dedicate al mondo del cinema, ovviamente non poteva mancare. Ci
sono almeno tre Pasolini, tutti diversi da quello celebrato dall’iconografia
ufficiale. C’è quello plumbeo che è costretto a subire un assurdo processo per
oscenità e vilipendio della religione per via della Ricotta, che confabula e cerca di capire, accompagnato dall’amico
Moravia, il quale documenterà in parallelo il dibattimento sulle pagine
dell’«Espresso», mettendo in luce l’assurdo rito che condannava un’opera dell’ingegno
creativo di un grande artista (peraltro, un’opera profondamente religiosa) come
si trattasse di una discussione tra amici in un salotto borghese. Poi c’è il
Pasolini che sovrintende i lavori di Mamma
Roma
, sovrastato dall’imponenza estrosa di Anna Magnani e circondato di una
vera e propria folla di borgatari, simpaticissime “facce da schiaffi”, tenute
ancora una volta a freno dai fratelli Citti nel ruolo dei domatori di leoni. E’
un Pasolini che sta appena prendendo le misure al cinema e al nuovo statuto
divistico, ancora troppo magro dentro una umile giacca pesante, dalla quale
traspaiono fogli di appunti e quella goffaggine un po’ stropicciata tipica
dell’intellettuale abituato a vivere fra i suoi studi e progetti. Ma è ancora
parente strettissimo di quello timido e periferico, che a malapena compare alla
prima di Accattone, tra una magnifica
Laura Betti impellicciata e un magrissimo e tenerissimo Sergio Citti, per
l’occasione avvolto da un perfetto smoking degno di Alain Delon (quello che
vediamo scatenarsi, per esempio, in una festa popolare a Velletri, assieme ad
una irriconoscibile e ancora tutt’altro che malinconica Romy Schneider).

E’ un Pasolini che sembra
lontano anni luce dal personaggio mediatico che diventerà a partire dalla
seconda metà degli anni sessanta. L’uomo scavato e sicuro di sé, fasciato da
abiti all’ultima moda e spesso in posa, quasi che tutto il discorso
sull’omologazione, le lucciole e i capelloni partisse dalla consapevolezza di
aver incarnato lo spirito di questa “mutazione antropologica” e di esserne
stato modificato, fisicamente, in profondità.

Già, perché tutto
l’inesauribile e splendido catalogo delle fotografie di Rodrigo Pais si regge
su questa contraddizione di fondo, che è poi il fenomeno che meglio di ogni
altro ci aiuta a capire davvero lo spirito di quel quinquennio denominato
“miracolo economico”. I grandi moralisti del tempo, primo fra tutti Dino Risi,
lo ritrarranno nei termini dell’ipocrisia e della mostruosità. Eppure, oggi, in
accordo con altri grandi interpreti dello spirito del tempo – Fellini, Flaiano,
Antonioni, lo stesso Visconti e molti altri – restiamo affascinati dalla carica
di ingenua vitalità dell’atmosfera diffusa e dei suoi protagonisti. Perché sì,
è vero, ci sono I mostri, che hanno
la maschera di Tognazzi – ospitato direttamente nella redazione di «Paese Sera»
– e Gassman, quel pennellone scatenato e disperato che si lancia nelle danze
alla Capannina in Versilia e poi salta sulla sua Aurelia B24 per l’ennesimo Sorpasso. E si resta naturalmente
interdetti, per esempio, dalla sproporzione tra le fotografie di lusso sfrenato
e trepidante frivolezza con cui la Loren, De Sica e Carlo Ponti si mettono in
scena mentre attendono di sapere, al telefono, l’esito dell’Oscar confrontati
con l’impegno civile e drammatico del film di cui si tratta, La Ciociara, lo sconvolgente ritratto di
sofferenza femminile tracciato da un Moravia particolarmente ispirato. Ma
sarebbe ingeneroso e sbagliato immaginare che tra la “vita difficile” di questa
madre coraggio e quella assai facile, interamente “on stage” della sua
interprete esista una qualche forma di contraddizione, o che la natura dell’una
vada a compromettere quella dell’altra. In realtà, sono le due facce di una
stessa medaglia. Sono entrambe il segno di quella vitalità che contraddistingue
un periodo di scoperta e costruzione di un mondo nuovo e finalmente affluente,
come dicono i sociologi, dove la posta non è più quella della mera
sopravvivenza ma di un gioco allargato di ruoli e sperimentazioni, un grande melodramma
di euforie e disforie, piaceri e sofferenze, nuove possibilità e nuove
alienazioni. Ed è questo il segreto della fotografia di Rodrigo Pais, diventato
famoso nella “mediasfera” italiana anche grazie ad un servizio fotografico che
fece scalpore, quello dedicato al presunto uxoricida Fenaroli, celebre caso di
cronaca nera del 1958 che avrebbe segnato l’opinione pubblica e ispirato anche Il Vedovo, la straordinaria commedia di
Dino Risi con Franca Valeri e Alberto Sordi. E così, se la prima di Accattone, film lirico e brutale sulla
vita della più miserabile periferia romana, si era tenuta al Barberini,
elegantissimo cinema al centro della Roma più ricca e raffinata, le fotografie
di Pais si trovano a documentare il “piacere dell’effimero” di una mondanità
nascente e irresistibile e della più superficiale e industriale fra le arti,
dall’interno di testate – «Vie Nuove», «L’Unità», «Paese Sera» – che erano
espressione diretta del più ampio, compatto e austero Partito Comunista
occidentale. Allora, per capire a fondo queste fotografie, è necessario provare
ad immaginarle all’interno del contesto da cui proveniva colui che le ha
realizzate, immaginando che esista un’omologia fra lo sguardo, colui che ne è
portatore e sintassi e semantica del messaggio che la foto finisce per
determinare e trasmettere.

In questo caso, allora,
dobbiamo per prima cosa ricordare il doppio discorso – carico di ambiguità –
portato avanti dagli organi di stampa ufficiali della sinistra italiana, la
stessa parte politica e gli stessi presupposti ideologici di gran parte del
cinema italiano coevo. Da una parte, infatti, abbiamo il messaggio che passa
attraverso le parole degli articoli e dei titoli. Un discorso critico, di
denuncia del consumismo e della perdita di valori che esso comportava, nonché
la propaganda di un sistema alternativo di vita e di pensiero, da conseguire
attraverso l’impegno, la rinuncia, la sensibilità nei confronti dei più deboli,
in Italia e all’estero, ai dominati, ai subalterni e agli sfruttati. Dall’altro
lato il racconto che passa attraverso le immagini, le fotografie di copertina e
a corredo degli articoli di costume e spettacolo, assai più letti delle
interviste a Jean-Paul Sartre o a Gian Carlo Pajetta, fotografie che raccontano
tutta un’altra storia. La gravità, infatti, lascia spazio allo stupore, al
piacere, alla gioia di vivere, al desiderio per una modernità fatta di
benessere ed emancipazione, finalmente a portata di mano e fatta circolare –
ancora per un po’ – soprattutto dal cinema e dalla sua industria. Una cosa che
è fatta di film ma anche di quel serbatoio inesauribile di umanità e personaggi
che deriva dal lavoro degli uffici stampa: il “mondo del cinema”, il gossip, la
cronaca rosa, le conferenze stampa delle star, il lancio dei film e le anteprime,
una cosmologia di personaggi maggiori o minori, belli o simpatici, in ascesa o
in discesa, comunque modelli di progresso per il costume e la mentalità.

Allora, il Partito Comunista,
la Democrazia Cristiana e il nascente mondo dell’industria e del consumo non
sono più così lontani, il cinema cosiddetto d’autore e quello “commerciale” o
popolare non sono più così distanti, e le foto di Rodrigo Pais sono il luogo di
una riconciliazione, la prova di quella forza mitopoietica di un paese che
rinasceva e del suo mezzo espressivo più potente. A esemplificarne al meglio la
funzione e l’atteggiamento, alcune preziose immagini di Monica Vitti nel
camerino, sacrificatissimo, di L’Eclisse.
Il film è severo come pochi, raccontando la follia dell’economia finanziaria e
dei suoi schiavi, nello scenario di una Roma fantascientifica, concepita nelle
forme dell’arte contemporanea più estrema. E, forse, altrettanto severo
vorrebbe essere in partenza anche il servizio, che si pregia di ritrarre la
Vitti, l’attrice impegnata che offre il volto alla critica dell’alienazione e
dell’incomunicabilità, in una tipica posa bergmaniana, nel camerino dove ci si
trucca e si indossano le maschere, di fronte a quello specchio capace di
restituire un’immagine costantemente doppia, falsa e autentica al contempo.
Ebbene, la realtà eccede l’intenzione dell’artista, il reale resiste alla
costrizione del frame che lo rende stereotipo culturale, ed ecco che la Vitti
abbandona il personaggio tormentato e si atteggia, fa le facce buffe, lascia trasparire
chiaramente quella voglia di giocare che ne farà – ma devono passare ancora
diversi anni – uno dei volti più popolari e amati della commedia brillante.
Tralasciando l’aspetto documentale, sulla natura artigianale di quel cinema e
sulle sue pratiche, perché la Vitti si trucca da sola e Antonioni condivide con
altre cinque persone lo spazio angusto di una piattaforma tenuta in piedi da
cassette per la frutta, estremamente precaria, in barba a qualunque norma sulla
sicurezza.

Ma a interessarci è l’indagine,
la scoperta di questo nuovo universo, alieno e distante, ma vicino e già
attuale, incantato e familiare. Fantastico e impietoso è il raffronto fra la
colossale Ekberg, avvolta da una pelliccia vichinga (probabilmente di orso
polare… appena mitigata dai gioielli) e la povera Masina, dimessa e modesta,
fasciata da pizzi neri da signora d’altri tempi; geniali i set dei cosiddetti
peplum, filmoni storico-mitologici che tanto avevano contribuito alla nascita
della Hollywood sul Tevere, alias Cinecittà, dove immense sfingi vengono
depositate con i cingolati fra le rovine della Roma antica (Cleopatra di Hawks, in un collage
postmoderno di falso e autentico assolutamente strepitoso) oppure uno stuolo di
ragazze in costume (ad esempio in Sodoma
e Gomorra
di Aldrich) si fa fotografare in compagnia di star ormai in
disarmo (Stewart Granger) o di attempati produttori, come fra le quinte di uno
spettacolo di varietà. E’ un universo implicitamente felliniano, un mondo in
trasformazione, dove c’è spazio per le ultime riviste dei grandi comici, per
esempio del più improbabile Totò, che indossa la tonaca (prima di Uccellacci e uccellini) per impersonare Il monaco di Monza assieme al fido
Macario, sotto lo sguardo annoiato di Lisa Gastoni che fuma tra le pause, o per
lo sfruttamento cinematografico dei nuovi comici emersi dal tubo catodico, per
esempio Raimondo Vianello e Walter Chiari, che assieme a Tognazzi sono I magnifici tre, cialtroni assoluti che
attraversano la rivoluzione messicana col sombrero in testa, in un film di
Giorgio Simonelli del 1962 che sembra aver offerto più di uno spunto alla
futura invenzione dello spaghetti western. Simonelli, del resto, passa alla
storia soprattutto come regista di “musicarelli”, quei film musicali
interpretati dalle star della nascente industria discografica che segnano
l’emergere anche in Italia di una cultura giovanile propriamente detta. Si
stringe il cuore, allora, a vedere la giovanissima Mina che – figlia di un
palazzinaro – passa dalla parte dei gestori di una osteria (sotto una ghirlanda
di fiaschi di vino) che diventerà in Io
bacio tu baci
di Piero Vivarelli il centro dell’esplosione romana della pop
music e del rock’n roll, ma anche il ciuffo marmoreo di un giovanissimo Bobby
Solo che si lancia in uno spericolato braccio di ferro durante le riprese
dell’eloquente Una lacrima sul viso
di Ettore Maria Fizzarotti, americanizzato solo dagli stivali da cow-boy e
dalla maglia che reca il marchio di una improbabile università del Kansas:
praticamente il Sordi di Un americano a Roma,
ma questa volta messo in scena con benevolenza e garanzia di successo.

Perché quella che emerge da
queste foto è forse – pur con tutti i suoi difetti e problemi – l’Italia più
bella che ci sia mai stata, la più propensa a rispecchiarsi nel cinema perché
attraversata da fermenti che avevano davvero qualcosa di cinematografico, vale
a dire “bigger than life”. Anche quando si tratta dei Delfini di Citto Maselli o della Noia di Damiano Damiani, il glamour traspare inequivocabile dalla
bellezza radiosa e dal sorriso accovacciato di Claudia Cardinale o dalla
prorompente frivolezza di Catherine Spaak, capaci di riscattare il paternalismo
di questi racconti morali e perfino – nel caso del film di Damiani – i pessimi
e pruriginosi quadri di un finto Guttuso interpretato da Horst Buchholz,
giustificato solo dal fatto di essere figlio di una strabiliante e terribile
Bette Davis.

Tutto questo, lo ribadiamo,
uscendo ogni mattina dalla redazione di «Paese Sera» o dell’«Unità», come un
uomo con la macchina fotografica vertoviano che cerca il modo per sostenere
l’avvento di un mondo serioso di eguaglianza e piani quinquennali ma resta ogni
giorno impigliato nel fascino di un pianeta in trasformazione, la cui
evoluzione sta portando in una galassia – quella del loisir e della jouissance
– che si trova esattamente agli antipodi. Ma questa Italia ingenua non è solo
egoismo e lustrini. Affascina il reportage su Gian Maria Volonté, che dal suo
piccolissimo appartamento bohémien, microscopico e poco e male arredato di
attore che ancora si barcamenava fra incerti esordi cinematografici e teatro di
strada, mostra ritagli di giornale sul caso di Sacco e Vanzetti che diventerà
un film per la regia di Giuliano Montaldo solo una decina di anni dopo. Stessa
atmosfera nella casa di Gillo Pontecorvo, innamorato di un cocker dal pelo
lucidissimo, che appare con i vestiti lisi e un disordine elegante tra i
manifesti di Kapò, con l’aria svagata
di un poeta beat.

Qui ci fermiamo, perché è
impossibile dar conto pienamente della ricchezza variegata di questi ritratti,
di queste istantanee, dei reportage dentro e fuori dal set di un testimone
arguto e stralunato di un’epoca irripetibile. Le foto congelano il tempo e
fanno esplodere il significato di tutto ciò che l’immagine cattura e mette in relazione.
In queste foto c’è la ricchezza intellettuale, erotica, industriale,
esistenziale, culturale, etica, del cinema italiano di quegli anni, una
ragnatela dove stanno in relazione fra loro l’alto e il basso, il genio e la
bizzarria, la furbizia e il talento, volgarità e raffinatezza, ironia e
sensualità. Tutto in equilibrio, tutto mischiato, offerto allo sguardo ma
difficilissimo da interpretare. Onore perciò alla bravura e all’energia di
Rodrigo Pais. C’è una foto che, meglio di ogni altra, ci sembra lo rappresenti.
Una foto di uno dei tanti film popolari e impossibili partoriti in fretta e
furia. Si tratta del bizzarro I marziani
hanno 12 mani
, un vero e proprio oggetto di culto, che segna l’esordio alla
regia di Castellano e Pipolo. In questo film, Franco Franchi e Ciccio
Ingrassia, i più regressivi e popolareschi dei comici italiani, interpretano
altrettanti scrittori di fantascienza che provano a immaginare che effetto
farebbe questa pazza nuova Italia a degli eventuali extraterrestri. Ecco allora
l’avverarsi del sogno. La foto di Pais ci restituisce due dei protagonisti,
l’immenso Paolo Panelli e la sua spalla (per l’occasione) Carlo Croccolo,
vestiti con delle scintillanti tute da viaggio intergalattico alla Star Trek,
pronti a lanciarsi alla scoperta della Roma della Dolce Vita sul più classico mezzo di trasporto del paparazzo, la
lambretta.

Ecco, Pais ci piace
immaginarlo così, un alieno in lambretta, che attraversa gli incroci della
Capitale per testimoniarne la trasformazione repentina dell’immaginario agli
abitanti di quella remota galassia che è il futuro, compito e professionale
nell’atteggiamento, serissimo nell’espressione, ma con un beffardo e caustico
sorriso nell’anima.