PURO SEMPLICE E NATURALE NELL’ARTE A FIRENZE TRA CINQUE E SEICENTO Galleria degli Uffizi 17 giugno – 2 novembre 2014

Galleria degli Uffizi

17 giugno – 2 novembre 2014

Giorgio
Vasari nelle pagine delle
Vite (1568) assegnava un ruolo fondativo nella
‘rinascita’ dell’arte moderna ai fiorentini Andrea del Sarto e fra’ Bartolomeo,
affiancandoli ai triumviri Leonardo, Raffaello e Michelangelo. Eccellente e di
elevato ingegno, la loro produzione, incardinata sull’esercizio costante del
disegno, si segnalava per onestà d’invenzione e perfetta imitazione della natura,
dalla carne alla vivezza degli affetti. Oltre un secolo dopo Filippo Baldinucci
nelle
Notizie
de’ professori del disegno
(1681-1728), confermando il dettato
vasariano, vedeva nella fedeltà ai valori espressi da quei capofila di primo
Cinquecento la strategia necessaria per superare l’
impasse manierista, e al tempo stesso per istituire
un linguaggio moderno, aderente alle nuove esigenze spirituali proprie del
Concilio di Trento. In questo quadro il registro neorinascimentale di Santi di
Tito e di Jacopo da Empoli, insistentemente sottolineato dallo storiografo,
costituiva la ragione essenziale per riconoscere a questi due maestri il ruolo
di  riformatori delle arti figurative a
Firenze sullo scadere del Cinquecento. La strenua difesa, al limite dell’autarchia,
di una tradizione fiorentina fondata sulla perfetta misura e serena
espressività, intimamente confidenziale, interessata alla resa accostante del
dato quotidiano, in una semplicità di schemi talora arcaizzante, dalla tecnica
pittorica nitida e compatta, avrebbe trovato ulteriori paladini fino alla metà
del Seicento, in particolare con l’emblematica personalità di Lorenzo Lippi.

Pur
dichiarando apertamente la grandezza di questi artisti, Vasari e Baldinucci non
nascondevano la loro predilezione, l’uno per una
grandeur romana, l’altro per una libera sensibilità
barocca, condizionando forse con ciò la fortuna storiografica di questa linea e
la sua popolarità. Così solo a partire dagli anni Venti del Novecento con
Hermann Voss, e dagli anni Cinquanta e Sessanta con le originali intuizioni e
le lucide analisi di Mina Gregori e Fiorella Sricchia, si è cominciato a
ritessere quel sottile filo che legava i maestri del primo Cinquecento a quelli
del Seicento maturo, precisandone il carattere di novità nella tradizione.

La
mostra punta ad illustrare questa identità dell’arte fiorentina, attraverso un
ricco e serrato contrappunto tra pittura e scultura, articolato in nove sezioni
che raggruppano circa ottanta opere e trentacinque artisti. Dopo una
scenografica ouverture dedicata a due protagonisti emblematici, Andrea del
Sarto e Santi di Tito (sezione 1), e dopo un omaggio al disegno dal vero come
strumento di conoscenza (sezione 2), nella prima parte della mostra (sezioni
3-6) si potrà seguire in senso diacronico la persistenza di piacevole chiarezza
e quieta grandezza di questo corso dell’arte fiorentina, restituendo così,
accanto ai maestri fondatori, un più adeguato ruolo ai Della Robbia e ai
Sansovino, a Franciabigio, Bugiardini e Sogliani, artisti ‘mediatori’ verso
Bronzino, Poggini, Giovanni Bandini e la più tarda generazione di Ciampelli,
Tarchiani, Vannini e Antonio Novelli. Nella seconda parte (sezioni 7-9), si
potrà verificare, in un confronto diretto incentrato su tre temi (l’espressione
degli affetti, l’evidenza degli oggetti quotidiani, la nobile semplicità degli
eventi sacri), l’effettiva consistenza di questo particolare lascito culturale.
Ne scaturisce una connotazione delle arti figurative in linea con le nuove
forme di spiritualità variamente ispirate alla tradizione di austerità
savonaroliana. Non manca infine un’evidente consonanza con gli svolgimenti
puristici del dibattito sulla lingua, elaborati in seno all’Accademia
Fiorentina e a quella della Crusca.

La
mostra offre dunque l’occasione di sovvertire il luogo comune di una cultura
civica fiorentina passatista, disvelando i mutamenti semantici e le istanze di
novità insiti nella fedeltà all’antico dei suoi artefici, e dunque, invertendo
una celebre formula critica, di mettere in luce la ‘novità della tradizione’.

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